BACK AT HOME

“Allora pronti a tornare a casa?”, esclamò il medico entrando in stanza. Evidentemente i miei occhi e quelli di T. dovettero parlare da soli esprimendo un chiaro No, visto che il dottore subito disse:” Se ancora non te la senti puoi rimanere un altro giorno e ti dimetto domani!”. A quelle parole esclamai un “Si!” rasserenato. Mi sembrò che posticipare il ritorno a casa potesse aiutarci a prendere tempo e a rubare qualche informazione in più alle ostetriche su come gestire il fagiolino appena saremmo rimasti in tre.

Certamente la clinica non era casa ma in quel momento rappresentava un porto sicuro in cui alla minima incertezza avere un aiuto esperto per affrontare ogni evenienza, specie quelle notturne in cui il pargoletto, da dormiente e beato, improvvisamente urlava disperato senza tregua.

Ci domandavamo se saremmo stati in grado di cambiargli il pannolino, di disinfettargli il cordone senza fargli venire un buco al posto dell’ombellico, se avremmo sopportato le notti insonni, dove non ci sarebbe stata nessuna infermiera pronta ad intervenire. Insomma quelle 24 ore, che passarono fin troppo velocemente, furono un turbinio di dubbi e domande. L’alba ci colse ancora impreparati ma la notte ci aveva aiutato a maturare l’idea che non sarebbero bastate mille e altre ore in clinica per imparare ad essere genitori. Lo avremmo imparato da soli,giorno dopo giorno, sbagliando, sostenendoci, riprovandoci.

E così io, T e fagiolino ci ritrovammo all’uscita della clinica, con il sorriso più bello riflesso sul volto dell’altro, mentre a quattro mani spingevamo il nostro bimbo nella carrozzina verso quello che sarebbe diventato l’inizio della nostra vita a tre.

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